In Italia l'Israele più noto è quello cantato dai "tre tenori" — Yehoshua, Grossman e Oz —, ovvero epico e lacerato, contraddittorio e ricco di pathos, comunque eccezionale rispetto ai canoni di noi occidentali opulenti e iperdemocratici-sulla-pelle-degli-altri.
È il paese eccezionale che qualcuno ama, in troppi detestano, quasi nessuno conosce.
Eppoi c'è l' Israele normale, narrato da una folta schiera di giovani scrittori non ancora conosciuti quinda noi.
Risultato: essendo l'età media degli israeliani sui trent'anni, questa società rimane per noi, appunto, ignota. Il che è un dato a dir poco tragico anche perché, come dice Etgar Keret, uno dei succitati autori giovani, "se una bomba atomica deve cadere da qualche parte in questo mondo, molto probabilmente cadrà qui: quindi domandarsi che aspetto avrà Israele tra vent'anni è tabù."
Un tabù così tabù, talmente radicato e profondo che —pensate—non esiste una letteratura ebraica di fantascienza: il domani che li/ci attende è una sorta di limbo troppo pauroso da affrontare.
— Stefano Jesurum (prefazione a "Karma Kosher" di Anna Momigliano)