Scrivi sull'incomunicabilità dell'esperienza, e avrai scritto un romanzo.
La peculiare verosimiglianza della rappresentazione della realtà nel romanzo, e il potere quasi ipnotico di incantesimo che il romanzo ha sui suoi lettori, lo hanno sempre reso oggetto di sospetto, sia morale che estetico. Non c'è forse qualcosa di fondamentalmente insano e innaturale in una forma d'arte che sospende nel lettore la consapevolezza della propria esistenza nello spazio e nel tempo?
Il piacere di un testo romanzesco non ha forse la stessa natura del sogno a occhi aperti e della fantasia compensatoria? Freud di certo la pensava in questo modo (basti pensare al suo scritto su "il poeta e la fantasia").
Su queste basi c'è chi, in particolare il critico marxista Walter Benjamin, ha affermato che il romanzo non è autentica comunicazione. Benjamin tracciò una distinzione tra narrazione, considerata, nella sua forma più pura, come una transazione orale/uditiva tra un narratore e un pubblico fisicamente presenti l'uno all'altro, e romanzo, che è prodotto in silenzio da un solitario scrittore in un luogo, e in silenzio è consumato in un altro luogo da un solitario lettore.
La nascita del romanzo, osserva Benjamin, coincise con il declino della narrazione, e di conseguenza, dice in un passo folgorante, "diminuisce la comunicabilità dell'esperienza."— David Lodge, The Practice of Writing, 1996
Hammerbrook - City can this really be true?
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