I romanzieri non hanno bisogno di sperimentare la vita.

Le opinioni di Philip Roth dividono spesso i lettori: la grande originalità è e dovrebbe essere sempre difficile da digerire. Oltre a Il lamento di Portnoy e La mia vita di uomo, con la sua minacciosa potenza, ci sono, secondo me, altri tre capolavori. Penso alla lucentezza lapidaria de Lo scrittore fantasma, all'arduo rigore intellettuale de La controvita e alla lussureggiante ampiezza americana di Pastorale americana. E, in generale, ci sono alcuni motivi che immancabilmente infiammano l'eloquenza di Roth: Israele; la vecchiaia e la mortalità; la malattia e la sofferenza; tutto il suo discorso sui genitori e, questo è più sorprendente, tutto il discorso sui figli.

Ne Il teatro di Sabbath, il ripugnante protagonista si vergogna di aver una volta avuto una moglie, e si consola al pensiero di non aver mai avuto un figlio – lui non è così stupido. I romanzieri non hanno sempre bisogno di sperimentare le cose. Qui vediamo l'abituale ed elementare miracolo della narrativa. Si pensi a Levov lo svedese e a Merry in Pastorale americana. Si può scrivere magnificamente sui bambini senza averne mai avuto uno; basta rivolgersi a quella madre surrogata che è l'immaginazione.

— Martin Amis, "His Subject, Himself"
The New York Times, 17 ottobre 2013


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