Sono quelli in cui viviamo gli anni di Čechov. Proprio del dottor Čechov, di Anton Pàvlovic, che piace a tutti, ormai, perfino agli snob. "Čechov capiva tutto", si dice. E come avviene a chi sia ravvolto da un mito, anche la figura di Čechov finisce col perdere i suoi tratti reali, sfuma, come sembrava ai suoi contemporanei, addirittura nel nulla. "Voi", gli diceva Gorkij, "siete indifferente come la neve". "Tu", gli diceva la moglie, "puoi tacere all'infinito, niente ti tocca". Povero Čechov! Gli altri erano caldi, e lui no. E allora, cosa capiva, Čechov? Čechov capiva gli altri, sempre, un minuto prima di se stesso.
La sua capacità di coincidere con gli altri è assoluta, senza limiti. Il problema di Čechov è un altro: se stesso. Di lui non sappiamo nulla, il suo volto è un enigma, la sua anima una corazza. In tutta la sua produzione, soltanto qualche racconto, "La mia vita" o il "Racconto di uno sconosciuto", apre uno spiraglio, e sono racconti fuori misura, di un tono eccedente, che non sembra chevoviano. Romanzi in embrione, come sfocati, di una problematica oscura, sgradevole, addirittura dostoievskiana. E Čechov aveva troppa paura di se stesso, non avrebbe mai tollerato di muoversi in quella direzione. Non avrebbe mai accettato di essere una persona diversa da quella lucida, positiva, che gli piaceva essere.
Meglio scomparire, meglio tacere. Meglio guardare il mare della Crimea, o arrivare a quella perfezione miracolosa, pura essenza di vita di un racconto come "Viaggio sul carro". Meglio la malattia, meglio morire. Potrà sembrare crudele, ma nemmeno tisici si è per caso.
— Cesare Garboli, Cento libri per due secoli di letteratura, 1989
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