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Vivere stanca. Dunque leggi.
Si chiede Pavese nel Mestiere di vivere: “perché concentrarsi sulla scrittura se è la vita che conta?”
La domanda non è retorica. Pavese vorrebbe darsi alla vita, amare, lottare, eppure sta continuamente sui libri. Perché? Come lui stesso spiegherà, ci sono diversi motivi, anche validissimi, il primo dei quali è che la vita stanca, non sempre è bella, non è pulita. L’arte di vivere consiste nell’abituarsi a fare ogni porcata senza guastare la nostra sistemazione interiore. Essere capace di qualunque porcata, è il miglior bagaglio che possa avere un uomo.
Questo amaro commento ci rammenta la Micol del Giardino dei Finzi Contini, che reagisce alla dichiarazione d'amore del mite narratore del romanzo sostenendo che l’amore è per i violenti, gli spregiudicati, per gente che è disposta a sopraffarsi a vicenda ogni santo giorno, quindi non fa per loro. È la posizione di chi non può non prendere la vita molto sul serio, ma proprio per questo vuole essere risparmiato, non ce la fa a coinvolgersi, vorrebbe rifugiarsi in una casa con una grande biblioteca, ben protetta da un giardino murato, oppure, alternativamente, nell’arte.
Negli anni del fascismo, un periodo che esigeva che ci si schierasse, questa era una posizione abbastanza diffusa tra gli intellettuali italiani. Pavese si rifugia nell’arte, nella letteratura per proteggersi dalla vita. “Solo l’arte è pura”, scrive nel Mestiere di vivere. “Niente la compromette”.
Questo rifiuto del compromesso richiama Joyce, che attribuiva all’integrità della sua arte (dubito che avrebbe usato la parola “purezza”) un valore supremo, soprattutto perché questa posizione faceva di lui, l’artista, una figura a cui tutto è permesso.
Il problema per Pavese è che l’arte, per quanto pura, rimane molto circoscritta e limitata rispetto alla vita; non è, come per Joyce, un mondo che assorbe tutto, giustifica tutto. “C’è lo spettacolo della vita in quelle pagine”, Pavese scrive delle sue poesie, “non la vita”. La vita è altrove. Anzi l’arte è una perdita di vita. “Il poetare è una ferita sempre aperta, donde si sfoga la buona salute del corpo.”
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Leggendo i romanzi, le poesie, il diario e la biografia di Pavese colpisce quanto sia nitido e costante lo schema di comportamento che percorre l’intera sua vita e che lo porta, alla fine, non a corteggiare simultaneamente fallimento e celebrità, come in Joyce, ma a togliersi la vita: atto che, stando a Il mestiere di vivere, doveva sia concludere la sua opera sia difendere la sua purezza dalla banalizzazione di un mondo sempre più superficiale e inquinante, un mondo dove è impossibile rimanere “puri”.
Effettivamente il suicidio doveva rappresentare un atto insieme vitale e puro, il solo gesto che unisce il mondo dell’azione a quello della purezza. Una volta morto, non rischiava più di contaminarsi.
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