Ma quanto deve soffrire lo scrittore?
Avevo deciso di non soffrire troppo nello scrivere il mio romanzo. Ragionando da operaio, ritenevo che scrivere dovesse essere una sorta di ricreazione. Attorno a me non si faceva che evocare la sofferenza dello scrittore, ma io non ero convinto.
Alla radio, durante una trasmissione sulla letteratura, un noto scrittore sosteneva che non si può scrivere se non si è sofferto. Un altro affermava che lo stesso processo di scrittura esigeva la propria quota di sofferenza. Quel giorno non facevano che parlare di sofferenza.
Avevo l'impressione che conoscevano molto più la parola che la realtà che questa parola indicava. Era un campo in cui avevo conquistato i miei titoli di nobiltà. Ero appena fuggito da una dittatura delirante per ritrovarmi operaio in un'America del Nord in cui il Nero è ancora un cittadino di seconda scelta. Un po' più in alto l'aria è respirabile, ma non nei bassifondi della classe operaia dove le mattine sono tutte grigie e il cielo è basso.
A partire da questa vita quotidiana difficile volevo creare un universo spumeggiante come una coppa di champagne. A quei tempi ero affascinato dalla grazia che emanava uno scrittore come Francis Scott Fitzgerald – era in grado di restare se stesso nelle situazioni più intollerabili. Dava l'impressione di aver deciso, un bel giorno, di essere il personaggio di un romanzo.
Ed era proprio quello che volevo diventare.
— Dany Laferrière, Journal d'un écrivain en pyjama, 2013
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