Per scrivere, affitto una stanza d'albergo.

Ho sempre avuto una stanza d'albergo in tutte le città in cui ho vissuto. Affitto questa stanza per alcuni mesi, lascio casa alle sei e cerco di essere al lavoro per le sei e mezza.  Per scrivere, mi sdraio sul letto, tanto che il mio gomito diventa duro perché si forma il callo. Dico al personale dell’hotel di non rifare il letto, tanto non ci dormo mai. Rimango a lavorare fino alle dodici e trenta, una e trenta del pomeriggio, poi torno a casa e tiro il fiato; verso le cinque controllo ciò che ho scritto; mi preparo la cenetta—una cosa semplice, tranquilla, simpatica— e torno al lavoro la mattina seguente.
A volte, negli hotel, quando entro nella mia stanza trovo un biglietto sul pavimento che dice: "Cara signora Angelou, ci permetta di cambiare le lenzuola. Sapranno di vecchio." Ma li lascio solo svuotare i cestini dell'immondizia.
Insisto che i quadri vengano tolti dalle pareti. Nella mia stanza non voglio niente. Quando entro, il mondo deve restare fuori. Nessun richiamo a nulla. Niente lattaie [di Vermeer], niente nature morte con fiori, niente. Voglio solo sentire, e poi quando inizio a lavorare, ricorderò.
Leggo qualcosa, magari i Salmi, oppure un passo di Mr. Dunbar o James Weldon Johnson.  Per ricordare quanto è bella, quanto è flessibile la lingua, come si adatta a tutto. Se voglio trasformarla, dice: accomodati! Penso a questo e inizio a scrivere.
Nathaniel Hawthorne dice: se è facile da leggere, è stato difficile da scrivere. Cerco di dare alla lingua la precisione che la faccia saltare fuori dalla pagina. Sembrerà facile, ma quanto ci metto perché sembri facile. Certo, alcuni critici —penso a quelli di New York– dicono: "Maya Angelou ha pubblicato un libro e certo è bello, perché lei è una scrittrice naturale." Li prenderei per la gola e tirerei giù, perché per far cantare una pagina io ci metto un secolo.
Io sulla lingua ci lavoro. Guardando l’auditorium, se dovessi scrivere di questa serata usando il mio punto di vista, vedrei sedili di velluto rosso ruggine consumato con zone più chiare dove le schiene delle persone si sono strofinate contro lo schienale, così è diventato arancio chiaro, poi i bellissimi colori dei volti delle persone, bianco, bianco rosato, bianco beige, beige chiaro, marrone e bronzo —dovrei registrare tutto, i volti e il modo in cui sono attaccati ai loro colli.
Ma il risultato, dopo quattro o cinque ore di scrittura nella mia stanza, potrebbe essere: Un topolino si sdraia sul cuscino. Non ho detto bambino. E neppure gattino. Datemi ancora qualche ora e diventerebbe: Ti amo. Vieni. Ti amo. Per descrivere ciò che vedo adesso potrebbero volerci due o tre settimane.
Potrebbero volerci due o tre settimane solo per descrivere quello che sto vedendo adesso.

Maya Angelou, da un'intervista di George Plimpton (The Paris Review n°116, Autunno 1990)

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