Lo scrittore in quanto genio e assassino

Oggi l'artista gode di uno status unico e indiscusso. In una società complessa e indecifrabile, è il saggio, la guida spirituale che illumina la strada all’uomo comune. È tuttavia giusto ricordare che non è sempre stato così.

Fin dai tempi antichi l’artista ha goduto di una doppia reputazione. Da un lato era assimilato al veggente, che possedeva la verità grazie all’ispirazione divina (enthéos). Dall’altro, proprio per questa sua pretesa di partecipare del divino, era considerato un pericoloso invasato.

Le voci autorevoli profondamente ostili al ruolo dell’artista non si contano. È nota ad esempio la posizione di Platone che nella Repubblica svaluta il ruolo di poeti e drammaturghi, sostenendo che proprio perché sono “invasati dal dio” (théia manía) sono irresponsabili e dunque dannosi per la società.

Questa ostilità non era del tutto sparita nemmeno a ridosso della modernità. Risulta quasi comica nelle parole di un celebre classificatore di tipi anormali.

“[…] a un grande sviluppo dell’intelligenza, si associano, nel Genio l’alterazione del senso morale, dell’affettività, l’incoscienza […].”

“Evidentemente adunque il genio — quale si manifestò in generale fin d’ora — non è la più elevata espressione della specie.”

— Cesare Lombroso, Genio e degenerazione, 1897



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