Il narratore "portavoce"
La consapevolezza dell'insufficienza dei propri mezzi, qualora venga resa presente nell'esecuzione del testo, può produrre effetti imprevedibilmente forti. Non sto pensando a narrazioni del tipo: "Oggi vi racconto che non sono capace di raccontare niente"; di cose del genere non se ne può più e non servono più a niente se mai sono servite a qualcosa; penso, piuttosto, a una condizione quasi sempre presente ad esempio nei racconti e nei romanzi di Antonio Tabucchi, e resa esplicita fin nel titolo in "Sostiene Pereira".
Che cos'è questo "sostiene Pereira" che ritorna di continuo, se non un ricordarci che Antonio Tabucchi (o, comunque, colui che racconta la storia di Pereira) è semplicemente un "portavoce"? "Pereira è cominciato a sorgere e a delinearsi come personaggio due anni fa, sostiene Tabucchi, poi abbiamo cominciato a colloquiare, ho ascoltato le sue confidenze fino al momento in cui ho capito che potevo essere veramente il suo depositario, che poteva parlare attraverso di me".
Il narratore "portavoce" è sicuramente un narratore più debole (che si dichiara più debole) del narratore "burattinaio" o "onnisciente" della tradizione ottocentesca e di pressoché tutta la narrativa d'intrattenimento contemporanea. Eppure è proprio l'esibizione insistita di questo ruolo minore del narratore ad aumentare l'efficacia del romanzo; poiché il signor Tabucchi e lo stesso narratore della storia sembrano scomparire, ci rimane presente il solo Pereira – molto più presente, addirittura che se Tabucchi avesse scelto, che so, lo stratagemma della narrazione in prima persona ("io, Pereira, sostengo che" ecc.).— Giulio Mozzi, Parole private dette in pubblico, 1997
Hammerbrook - City can this really be true?
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