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Scriviamo per gli esseri amati che ci compaiono in sogno
Sono uno scrittore disciplinato. Ogni sera, prima di andare a dormire, preparo, come un alunno diligente, un foglio con i compiti per il giorno dopo. Tema, personaggi, linguaggio. Il tutto con rigore teutonico. Mi addormento. Mi sveglio presto. Mi lavo. Mi preparo la colazione. Silvia prepara il pranzo e la cena. Adesso dorme profondamente. Infine, verso le 7.30, mi siedo a scrivere con il mio schema bene in vista. A mezzogiorno interrompo il lavoro conoscendo quello che ignoravo e ignorando quello che conoscevo. Le cose che ho scritto in quattro ore e mezzo hanno poco o niente a che vedere con la mia razionale lista della spesa della sera prima. È comparso qualcosa di diverso. Una novità improbabile, una sorpresa oscura, un piacere del già scritto paragonabile solo alla delusione del non-scritto. Che cosa è accaduto in quelle ore di sonno?
Al di là di ogni razionalizzazione freudiana – il sogno distorce, rimuove, simbolizza — posso accettare che in sogno compaiano i morti che abbiamo amato a dirci in segreto quello che non hanno potuto dirci a viva voce. Se è così, vuol dire che nell’atto di sognare non compaiono solo i fantasmi della creazione, ma anche i suoi destinatari, il suo pubblico primo e primario: gli esseri amati. Sognare è creare perché durante il sonno, che è metà dell’esistenza, si danno appuntamento la gestazione della vita e l’annuncio della morte.
Portale privilegiato in cui si stringono la mano i due estremi dell’origine e della fine, come può l’onirico non alterare la discrezione del razionale, introducendovi la propria indiscrezione? Arrivare a un compromesso che non comprometta il sogno ma che non sacrifichi neppure la ragione apre la porta – una doppia porta, difficile da custodire — fra ciò che rubo al sonno e ciò che do alla veglia, perché anche se credo, illudendomi, di controllare la porta del mattino, non sono sicuro di sapere se sto aprendo o chiudendo la porta della notte.
Una cosa è certa: non si tratta di un processo ostile, né verso di me né verso gli altri. Ed è pericoloso, questo sì, ma solo per me. Se ieri sera sapevo quello che avrei scritto oggi, come scriverò adesso quello che prima ignoravo? Credo che la risposta vada ricercata nell’annosa questione del destinatario della scrittura. Sospetto degli scrittori che, fin dal primo momento, proclamano di scrivere per la gente. E detesto gli scrittori che conoscono la ricetta preconfezionata del successo di vendite. Invece mi sento attratto — come da un abisso, è vero — dall’avventura di un mistero iniziale (per chi scrivo?) o dall’onanismo di una giustificazione solitaria (scrivo solo per me), per approdare, nelle mie sette ore di sonno che sono l’altra metà della vita, alla rivelazione dei destinatari concreti: i più vicini, i più cari, quelli che se ne sono andati seguendo la legge del fiume profondo, ad aspettarci in un tempo senza lancette.
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