Lo scrittore: un dilettante molto professionale
Attualmente, sto leggendo un certo numero di scrittori italiani, e mi tocca constatare che non si divertono in quanto non divertono, e che non riescono a nascondere la fatica e la noia che provano scrivendo. È un’impressione terribile: si sente che uno si mette a tavolino e che si dice: “Devo assolutamente scriverlo, questo dannato libro, a patto di finirlo in fretta”. Donde le lacune, i punti oscuri, le incomprensibilità, le frasi vuote, e soprattutto quell’insopportabile portare avanti una specie di scritturale paranoia. È un atteggiamento che non riesco a capire, avrei addirittura voglia di dire ad alcuni di questi autori: “Ma perché diavolo scrive? Non si sobbarchi a questa pena, a questa sofferenza, a questo tormento”.
Il che rivela anche fino a che punto io mi senta dilettante rispetto a questi amanti dei lavori forzati, un dilettante nel senso letterale del termine, cioè “chi prende diletto”.
Certo però che il mio diletto è un mestiere e un mestiere che faccio seriamente. Un artigiano, calzolaio, sarto o falegname, una volta, in tempi non tanto lontani, si impegnava a dare alla gente oggetti che fossero belli nella forma e comodi nell’uso. Perché uno scrittore non dovrebbe sentire lo stesso impegno?
Non voglio con questo dire che quando scrivo penso solo al mio lettore, che sono una vittima del mio possibile lettore. In realtà, penso soprattutto a me stesso, o meglio al lettore come a un altro me stesso, ed è per me la peggior ipocrisia osar dire, per esempio, che si scrive “per i lavoratori”. Anche se la classe lavoratrice legge libri e forse i miei libri, non mi sento affatto autorizzato a dire che scrivo per essa. Io scrivo per me e per altri me stesso: e in questo va visto un principio etico fondamentale.— Leonardo Sciascia, La Sicilia come metafora, 1979
Hammerbrook - City can this really be true?
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